L’inconsapevolezza come prigione della concretezza (2012)

L’INCONSAPEVOLEZZA COME PRIGIONE DELLA CONCRETEZZA

L’agire, così come inteso attualmente, ha la sua radice concettuale nel  termine “acting”. Questo termine, comparso in ambito psicoanalitico con Freud, per designare un tipo di azione che l’analizzando compie in alternativa al ricordare e al mettere in parole un contenuto inconscio rimosso, è entrato nell’uso anche in altri contesti in riferimento ad un tipo di comportamento per lo più impulsivo, che può avere conseguenze negative  tanto per il soggetto che lo compie, quanto per un’altra persona o cosa. In senso più generale, l’acting si riferisce a una situazione in cui una persona agisce prima di riflettere.

Maria Ponsi (2006) individua nel comportamento agito l’espressione di un problema inconscio non altrimenti gestibile, un modo per portarlo alla luce.

Dall’emblematica formula di Freud (1914), Il paziente agisce anzichè ricordare, l’agire si è imposto sempre più come riferimento per comprendere il funzionamento di un individuo che “sembra preferire questa via di liquidazione a quella dell’elaborazione con il ricordo” (A. Green, 2002, p.179).

In linea con la stretta relazione individuata da Freud (1926) tra pulsioni, inibizioni e angoscia, per cui l’inibizione di una pulsione inaccettabile è una difesa finalizzata all’evitamento preventivo dell’angoscia, lo stesso Green ha individuato nell’agire un possibile esito di uno psichismo assente, intendendo con “psichismo” una formazione intermedia tra il corpo e il pensiero.

In riferimento all’incapacità di “questa struttura intermedia” di contenere “quel che viene dall’inconscio, dall’Es o da una realtà troppo traumatica” e all’ “assenza di pensiero”, l’analista francese, A. Green, sostiene uno “sconfinamento dello psichismo” (ibidem, p.177).

Siamo qui di fronte al dominio dell’Es evacuato attraverso l’atto, a configurazioni affettive dominate dall’indicibile, l’irrappresentabile, e, come direbbe D. B. Stern (1977), siamo di fronte ad un’esperienza non formulata. Secondo Stern, un’esperienza non formulata non ha forma ed è fondamentalmente ambigua e senza significato. Stern individua nella formulazione, attraverso una singolare e personale prospettiva, la condizione per esperire consapevolmente, per visualizzare gli elementi che formano quell’esperienza. “Ma se l’esperienza è interpretazione e il linguaggio è la condizione per esperire, tutta l’esperienza è linguistica” (p.7); “le parole sono l’unico modo per unirsi alla vita, e, senza le parole, non c’è pensiero esplicito” (p.27).

Come le parole, anche le rappresentazioni figurative e le azioni danno forma e contenuto al non formulato. Il linguaggio, le immagini, le azioni, sono mezzi di rappresentazione.

Stern spiega il linguaggio come sistema di simboli correlati, per cui un’esperienza non-formulata è un’esperienza non simbolizzata, non rappresentata, un’esperienza nascosta.

Gunder  Karlsson (2003) direbbe “assenza della capacità intenzionale di sintesi”, in relazione ad una concezione  dell’inconscio come di qualcosa al limite tra il cosiddetto “intendere conscio dell’Io e una rudimentale esperienza dell’Io corporeo” (p.384).

Interessante è il lavoro di Hayuta Guerevich (2008) sul “linguaggio dell’assenza”.

L’autrice si concentra sul concetto di assenza in riferimento a vari gradi di mancata risposta e di non sintonizzazione da parte dell’ambiente, durante lo stadio infantile di dipendenza assoluta, fino all’abuso psichico, fisico e sessuale.

Un’assenza esterna di tipo estremo può comportare un’assenza intrapsichica con una dissociazione di parti del sé.

Il concetto di assenza si riferisce qui alla sincronicità di realtà esterna e realtà interna e descrive la mancanza di risposta ai bisogni del Sé.

Secondo le parole di Faimbarg (2005) “Un’assenza è una presenza che attacca” (p.11); un’assenza che, se vissuta nel presente, la si può investire di significato, simbolizzazione e validazione (H. Guerevich, 2008).

Green (1990) ha individuato nella presenza di due termini, condizione necessaria per stabilire una relazione, il presupposto della produzione di un terzo in cui si può trovare “il fondamento dell’attività simbolica” (p.39). Per cui, se pensiamo al simbolismo come una relazione a tre termini,  i problemi nella formazione del simbolo vanno esaminati nel contesto delle relazioni dell’Io con i suoi oggetti.

La separazione e la riunione sono fondamentali nel processo di formazione del simbolo.

Il processo di simbolizzazione è un aspetto centrale nelle teorizzazioni di Green (1990), riguardo alle condizioni di riduzione del doppio limite e cioè in quelle condizioni i cui confini tra il soggetto e l’oggetto sono ridotti, fluidi, o assenti. Questi ha sostenuto la possibile presenza di due condizioni estreme, “normalità” e “regressione fusionale”, in cui s’inseriscono modalità difensive nelle quali la presenza-assenza dell’utilizzo del simbolo è un fattore determinante. Tali modalità corrispondono a “l’esclusione somatica”, “l’espulsione agita”, “la scissione” e il “disinvestimento” (p.66). Una sorta di cecità psichica è stata riscontrata da Green nelle prime due modalità difensive. “Questi due meccanismi hanno un notevole effetto di cecità psichica: tra le origini somatiche della pulsione e il suo sbocco all’esterno, il soggetto perde di vista la propria realtà interiore, in una sorta di cortocircuito di quello spazio intermedio che consente l’elaborazione” (ivi, pag 67).

Concettualizzazioni analoghe emergono in Wurmser (1996), a proposito dei processi di diniego e di esternalizzazione nei fenomeni di addiction. L’autore ha sottolineato la “ripetizione compulsiva” in tali fenomeni e ne ha parlato in termini di “circolo vizioso” (p.17), associando a questi un’ ipo-simbolizzazione, intesa dallo stesso autore come assenza di consapevolezza. Wurmser (1988) ne ha parlato in termini di “regressione del funzionamento affettivo”.

Allo stesso modo Green (1999) sostiene che la soppressione degli affetti è la difesa più comunemente applicata nei fenomeni di addiction. L’agito è qui spiegato come espulsione attraverso un atto, che mira alla riduzione della tensione intrapsichica, l’espressione di un atteggiamento di fuga e di evasione.

Il Super-Io ha un’importanza cruciale; la fuga dai divieti e dalla possibile percezione di vissuti di delusione è la soluzione adottata. Una soluzione il cui fondamento risiede in un masochismo inconscio teso all’alienazione da un oggetto interno dal quale è impossibile separarsi. Una influenza distruttiva caratterizza questo stato, la cui evoluzione è riscontrabile nell’inconscio desiderio di morte contraddistinto dal desiderio di auto-distruttività che, in ultima analisi, corrisponde al desiderio di distruggere l’oggetto interiorizzato da cui il soggetto è dipendente. La dipendenza dall’amore dell’oggetto, un amore primitivo, dimostra l’inseparabilità dal vitale narcisismo che costituisce l’Io del soggetto. Nessuna immagine può essere formulata relativamente a questo, con una continua limitazione della funzione di rappresentazione (ibidem). Il non rappresentabile continua a essere il filo conduttore.

Krystal (1990) nota, a tale proposito, come la mancata formazione di uno spazio transizionale di esperienza sia causa, non solo di una inibizione della creatività (così come la intende Winnicott in riferimento al vero Sé e all’esperienza di autenticità a questo legata), ma anche dell’incapacità a riconoscere e a verbalizzare la personale vita affettiva. Questo, secondo l’autore, sta a monte dei comportamenti di addiction, in cui domina il non verbale, il non simbolico. Tale assunto implica la considerazione, sostenuta dalla Segal (1981), per cui i disturbi nella relazione dell’Io con gli oggetti e, in particolare, nella differenziazione tra l’Io e l’oggetto, si riflettono nei disturbi nella formazione del simbolo. La differenziazione dall’altro presuppone una conoscenza di sé come separato dall’altro.

Segal, i cui contributi sul processo di simbolizzazione e differenziazione sono considerevoli, sostiene che, mentre la fantasia onnipotente nega l’esistenza del bisogno, il pensiero che ammette il bisogno può essere usato per esplorare la realtà esterna e interna e per affrontarla. L’autoconsapevolezza, attraverso il riconoscimento dei propri bisogni e impulsi e la loro differenziazione da quelli dell’altro, determina il superamento del pensiero concreto, caratterizzato dall’ equazione simbolica tra l’oggetto originario e il simbolo.

Tuttavia, scrive Quinodoz (1990): “I processi di differenziazione e quelli di separazione sono in stretto rapporto con il lavoro del lutto” (p.47), un lavoro che, secondo l’autore, implica la rinuncia ad una condizione in cui ci si percepisce una sola cosa con l’oggetto.

Il diniego onnipotente della separazione dall’oggetto, inclusa la percezione di avere controllo su questo, è un meccanismo di difesa caratteristico di un livello di relazione narcisistica. La fissazione e la regressione ad un livello narcisistico di relazione sono determinanti nei fenomeni di addiction:  un grave difetto nelle difese affettive; il difetto nella formazione dei valori, l’iposimbolizzazione, la disperata ricerca di un oggetto sostitutivo, atteggiamenti autodistruttivi, sono fattori descritti da Wurmser (1974) come caratteristici dei fenomeni di tossicodipendenza. Questi presentano come substrato costituzionale  fondamentali conflitti intrapsichici, i quali, secondo le parole dell’analista, costituiscono una “costellazione predispositiva alle patologie da dipendenza in generale e all’utilizzo di droghe in particolare” (p.839).

L’ utilizzo di droghe è finalizzato alla ricreazione di uno stato regressivo di auto-appagamento dei bisogni; un aumento di autostima accomuna le forme di gratificazione narcisistica ottenute con l’aiuto della droga. Come sostenuto da Wurmser, sottostanti conflitti narcisistici, con gli affetti a questi connessi, irrompono con un’intensità  schiacciante e non possono essere risolti senza l’aiuto di una difesa affettiva artificiale. Una crisi narcisistica può essere scatenata, secondo l’autore, da disapprovazioni intense da parte degli altri e da parte di se stessi, intense a causa dell’interiorizzazione di aspettative  esagerate, che rimandano al primo periodo di vita.

L’agito non pensato accomuna queste forme di regressione, in cui il diniego onnipotente della realtà esterna si esplica nel meccanismo di difesa dell’esternalizzazione.

L’ipo-simbolizzazione, inserita in un processo di regressione a forme simbiotiche di relazione, è analoga, pertanto, al concetto di equazione simbolica, così come riportato dalla Segal. Il mancato riconoscimento di sé e dell’altro va di pari passo con l’incapacità di utilizzare il simbolo per identificare i propri stati emotivi, inclusi i desideri e i conflitti fondamentali, e differenziarli da quelli dell’altro.

Hanna Segal (1981) scrive a riguardo: “i simboli sono necessari non soltanto nella comunicazione con il mondo esterno, ma anche nella comunicazione interna” (p.88).

La libertà di pensiero, a fronte di una conoscenza di sé e dell’altro, permetterebbe, secondo l’autrice, di tollerare una tensione crescente e di ritardare l’azione.

Le sostanze psicoattive non funzionano, pertanto, come sostituto dell’assenza di simbolizzazione, ma la loro funzione consiste nell’eliminazione di un disagio e di una tensione vaghi. Wurmser (1974) sostiene che le droghe sono impiegate per placare indifferenziati, ma dolorosi, vissuti emotivi, continuando a non pensare a questi.

Ecco il senso del circolo vizioso, sottolineato dagli autori interessati ai fenomeni di addiction. Un processo che si esplica nella ripetizione compulsiva.

Recalcati (2010) ha parlato, a questo proposito, di Es senza inconscio. L’autore scrive di una clinica di passaggi all’atto, di una spinta coattiva della pulsione, dove il reale, slacciandosi dal simbolico, non si inquadra più nella cornice inconscia del fantasma, un collasso dell’ordine simbolico nell’eccesso ripetitivo del godimento di tali dipendenze, una separazione che non allontana tanto il soggetto dalla realtà esterna, ma da se stesso, dal suo proprio inconscio, dalla rappresentabilità.

In linea con quanto scritto da Winnicott (1949), si tratterebbe di soggetti talmente ancorati alla realtà esterna da perdere il contatto con se stessi, con la parte più creativa di sé.

E’ evidente l’influsso delle teorizzazioni degli analisti della scuola britannica inglese, a proposito dei livelli di dipendenza nella relazione bambino-caregiver e dell’importanza della costituzione di uno spazio transizionale nello sviluppo delle capacità di simbolizzazione e differenziazione.

L’importanza del processo di differenziazione, nello sviluppo della creatività, come scoperta della propria identità, unicità, e determinante la capacità di utilizzare il simbolo per rappresentare, emerge anche in Stockes (1965, in H. Segal, 1981), il quale sottolinea come l’artista sia alla ricerca del punto preciso in cui è possibile mantenere contemporaneamente un oggetto ideale fuso con il Sé e un oggetto percepito come separato e indipendente.  Riuscire a pensare all’altro anche quando questo non è fisicamente presente; sentire la presenza dell’altro anche in sua assenza; avere l’altro senza doverlo possedere.

In linea con il significato etimolgico della parola “simbolo” (mettere insieme, riunire, integrare) è indispensabile inquadrare il processo di unificazione (dell’interno con l’esterno, del soggetto con l’oggetto e delle esperienze primitive con quelle successive) nei processi di differenziazione/separazione.

Quinodoz (1990), nell’ottica dell’assunto “Distinguere per unire” (p.46) e influenzato dalla distinzione sottolineata dalla Segal tra i termini “separation” e “separateness”, relativamente ai processi di separazione e separatezza, sostiene che la separazione può essere vissuta nel contesto di una relazione in cui una persona ne lascia un’altra, con tutte le reazioni affettive specifiche che accompagnano tale evento, o, altrimenti, la separazione può essere vissuta come perdita di una parte dell’Io.

I processi di differenziazione e quelli di separazione sono, pertanto, in stretto rapporto con il lavoro del lutto. La separazione dall’oggetto, sin dalle prime esperienze relazionali, comporta un lavoro di lutto, non solo in rapporto all’oggetto, ma anche in rapporto alle parti di sé rimaste attaccate all’oggetto.

Quinodoz (1990), in virtù del filo rosso che connette le forme di regressione riportate, i fenomeni di addiction in particolare, scrive: “Credo che il lavoro creativo sia analogamente lungo e doloroso, perché implica il lavoro del lutto per scoprire la nostra propria originalità, cioè quegli aspetti di noi stessi costitutivi della nostra identità, rimasti confusi con i nostri primi oggetti e da cui non abbiamo mai finito di differenziarci” (p.50).

La fissazione ad una forma di dipendenza assoluta, come direbbero i teorici britannici delle relazioni oggettuali, può determinare, in questo caso, la regressione a livello narcisistico di relazione, in cui il diniego onnipotente dell’esistenza dell’altro come separato da sé non lascia spazio ad una conoscenza di sé e dell’altro. La regressione ad una condizione d’indifferenziazione tra sé e l’altro, in cui non c’è posto per uno spazio transizionale ed in cui l’assenza dell’illusione determina la difficoltà di utilizzare il simbolo per rappresentare.

Il rafforzamento narcisistico dell’Io, il ritiro libidico dell’Io, il rifiuto dell’altro, il ricambio febbrile dell’oggetto: nel ritorno di tali aspetti ho ritrovato ciò che accomuna l’amore impaurito e le manifestazioni di regressione approfondite.

Una condizione d’indifferenziazione tra sé e l’altro alimenta ed è alimentata dai fenomeni di addiction, in cui l’evacuazione delle tensioni interne e l’esigenza imperiosa di godimento travalica ogni principio di mediazione simbolica.

La concretezza, che nelle tossicodipendenze rende inconsapevoli, imprigiona la libertà di pensiero che, d’altro canto, rende creativi, con e senza paura, ed in cui, come scrive Gibran, l’amore basta all’amore.

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